“Ok, facciamo finta che sia vero che chiunque possa scrivere un romanzo, il punto è un altro: come si fa a scriverlo, ‘sto cavolo di romanzo?”
A questa domanda – come si diventa scrittori? – il suggerimento offerto dalla maggior parte degli stessi scrittori è sempre lo stesso: devi leggere.
Leggere.
Leggere.
Nessuno sa perché, ma sembra sia d’obbligo dirlo tre volte: leggere-leggere-leggere.
Un suggerimento spesso declinato in forme simili alla minaccia: guai a te se t’azzardi a scrivere prima di aver letto-letto-letto questa lunghissima e sconfortante lista di capolavori imprescindibili che spegnerà ogni tuo entusiasmo precipitandoti in un abisso di senso di colpa per la tua profonda e criminosa ignoranza.
Non è così.
Si può scrivere un romanzo (anche un ottimo romanzo) senza aver mai letto Jane Austen, o Marcel Proust, o Lev Tolstoj, o Virginia Woolf, o Elsa Morante, o tutti quei nomi che chiunque di noi ritiene fondamentali per la formazione di uno scrittore. (Del resto Cervantes non ha letto nessuno dei nomi citati, eppure il suo mestiere è stato buono a farlo.)
Questo perché il consiglio di leggere-leggere-leggere, per quanto suoni quantitativo, nella sostanza non è un invito ad accumulare letture. Il contrario semmai: significa leggere di meno e più lentamente, per darsi il modo e il tempo di entrare a fondo in ciò che si sta leggendo.
Gustave Flaubert arrivò a dire:
Comme l’on serait savant, si l’on connaissait bien seulement cinq à six livres!
Come saremmo saggi se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri!
Pochi (buoni) libri, ma che siano libri che possediamo davvero (non solo fisicamente), libri di cui abbiamo indagato a fondo ogni anfratto (per quanto possibile).
Poi certo, lasciando da parte le provocazioni del nostro riverito francese, se si vuole essere seri nella propria passione letteraria, sarà bene che quei pochi libri diventino tanti libri, ma con pazienza e senza angoscia.
Apro una parentesi a proposito di Flaubert e delle ansie di completezza.
Mi vengono in mente i giorni precedenti l’uscita del mio primo romanzo. Sono giorni strani quelli che accompagnano un debutto in libreria. È difficile descrivere le emozioni con cui ci si sveglia, con cui si va a letto, e con cui si fa qualunque cosa tra quei due momenti: il libro è sempre presente nei pensieri, lo immagini impilato in libreria, recensito sui giornali, magari persino nelle mani di un lettore che incroci in treno o in metropolitana.
Capita anche di immaginare gli aspetti disastrosi: dai refusi fino ai veri e propri errori (io ancora soffro per un clamoroso “acido folico” al posto di “acido fenico”), dalle stroncature sui giornali fino al terrore delle presentazioni, tra le esperienze più tragiche che un debuttante si trova ad affrontare, magari un giorno ne parleremo.
Tra le tante emozioni che accompagnano il debutto, ce n’è una apparentemente irrilevante, se non proprio sciocca, e che pure esiste: la strana paranoia di non essere all’altezza del regno incantato – quello degli scrittori – di cui si sta per entrare a far parte. Una paranoia che può assumere forme strane. Nel mio caso: l’urgenza improvvisa di leggere Madame Bovary.
Avevo 30 anni e non avevo mai letto il romanzo capitale della modernità. Ma con che coraggio mi apprestavo a pubblicare qualcosa? E se qualcuno mi avesse scoperto? Imbarazzo, vergogna, discredito. Uscii di casa, direzione Feltrinelli di Piazza Piemonte, comprai l’edizione Einaudi, e non mi alzai dal divano fino a quando non lo terminai. Quanta idiota leggerezza quando chiusi l’ultima pagina, finalmente degno dell’ingresso nel mondo dorato della letteratura.
Chiusa parentesi.
Dicevamo, “leggere-leggere-leggere”.
La trimurti significa – banalmente – leggere con un’attenzione diversa da quella del lettore comune. Un’attenzione che si nutre di un secondo fine – imparare a scrivere – che supera le normali intenzioni con cui ci si avvicina a un libro (emozionarsi, intrattenersi, divertirsi, riflettere, comprendere, e chi più ne ha più ne metta).
Questo strano lettore-che-vuole-scrivere non pensa a emozionarsi, troppo preso com’è a interrogare ogni capitolo, ogni paragrafo, ogni frase, per scoprire come ha agito lo scrittore. Cosa hai fatto qui? Come hai ottenuto questo effetto? Perché hai inserito questa scena? Perché quell’aggettivo e non un altro?
È un irritante bambino pieno di domande moleste.
Il suo interesse? Le scelte.
Il lettore-che-vuole-scrivere sa che dietro ogni singola parola di un romanzo – vale la pena ribadirlo: ogni singola parola – c’è una scelta. Ed è determinato a illuminare queste scelte che generalmente restano nel buio della mente dello scrittore.
In questo senso, il lettore-che-vuole-scrivere è il peggior lettore che uno scrittore possa incontrare: è uno che entra in relazione con il libro in modi (perlopiù inquisitori) che lo scrittore non solo non ha considerato, ma nemmeno vorrebbe mai vedere impiegati con riferimento a ciò che ha scritto.
La sua – quella del lettore-che-vuole-scrivere – è l’impertinenza di chi ti entra in casa invitato a cena e invece di sedersi a tavola e godere del menu che gli hai preparato, corre in cucina ad aprirti il frigo, a rovesciarti i cassetti, a rovistare tra le confezioni buttate, perché vuole capire cosa sta mangiando, come l’hai preparato, e perché proprio quel piatto e non un altro, e perché quella cottura e non un’altra, fino al momento in cui finalmente se ne va, e tu pensi: ‘sto fesso in casa mia non ce lo faccio entrare mai più.
Chiaramente una lettura di questo tipo – tanto approfondita e maleducata – è incompatibile con l’accumulo delle maratone di lettura. Vale la pena sgombrare il campo da questo fraintendimento: la lettura in sé e per sé, quando non è accompagnata dall’indagine che abbiamo detto, non ci renderà scrittori. (Non ci renderà nemmeno persone migliori, tanto per sfatare un altro di quei miti ripetuti fino alla nausea secondo cui leggere in qualche modo ti eleva moralmente: io, i più stronzi che ho incontrato nella vita, tutti ottimi lettori, alcuni pure ottimi scrittori).
No, è necessaria una lettura diversa, tesa a scoprire il trucco (uso questa parola – trucco – nel senso più nobile del termine: quel nodo di pensiero e abilità che permette allo scrittore-prestigiatore di compiere il suo numero).
Naturalmente, un’indagine di questo tipo vale per ogni forma di narrazione.
Abbiamo parlato di romanzi, ma potremmo parlare di commedie teatrali, di musical, di film, di serie tv, persino di chi racconta qualcosa a cena (c’è gente che riesce a tenere sospesa un’intera tavolata con la più stupida delle storie e c’è gente che, anche con gli aneddoti più belli, è capaci di annoiarci solo aprendo bocca, perché?)
Un esempio cinematografico.
2012. Insieme al regista Francesco Patierno, ero nel pieno della scrittura del film tratto dal mio secondo romanzo, La gente che sta bene. Se si escludono un paio di brevi scene scritte per Studio illegale, il film tratto dal mio primo romanzo, si trattava della mia prima sceneggiatura.
Era dunque un periodo di studio: per quanto il racconto di una storia segua una serie di principi comuni (quelli su cui proviamo a riflettere in questa newsletter) la grammatica cinematografica è ben diversa da quella letteraria. E io, che all’epoca avevo 34 anni – a quell’età Reginald Rose aveva già scritto La parola ai giurati e Paul Schrader aveva già scritto Taxi Driver, per fare giusto due nomi di sceneggiatori che ammiro – ero determinato a recuperare il tempo perso. Tanto per cominciare, mi ero messo a guardare i film con quello sguardo attento di cui stiamo parlando, lo sguardo dello spettatore-che-vuole-sceneggiare.
In questo stato d’animo, andai al cinema con il mio amico Michele. Film: 007 – Skyfall.
Non ricordo molto della storia, a parte un dettaglio da nulla: un fermacarte molto kitsch – un bulldog con il cappottino dell’Union Jack – sulla scrivania di M, la capa di James Bond.
Questo fermacarte viene inquadrato intorno al minuto 17, un primo piano che chiude la scena. Una ventina di minuti dopo – per essere precisi: minuto 35:18 – torna in un altro primo piano. Stavolta apre la scena ed è seguito da un rapido scambio di battute tra M e Bond. La sceneggiatura descrive il momento in questo modo:
In italiano:
Poi, del fermacarte si perde ogni traccia.
Fino al minuto 136.
Il film è alle battute finali. A 007 viene regalata una scatolina (non dico le circostanze per evitare spoiler, diciamo solo che gli viene regalata una scatolina). Nel silenzio contrito del cinema, mentre Bond afferra la scatola, mi volto verso Michele e dico: “Vedi che dentro c’è il bulldog, sicuro”.
Bond apre la scatola: il bulldog.
La sala, commossa: ooooooooh…
Michele si volta, mi vede aleggiare, in tutta la mia tronfia superbia, sulla platea tonta e malleabile e mi riporta a terra: “Non è che ci volesse un genio, è che la gente è qui per godersi il film, mica per fare gli indovinelli”.
Aveva ragione. Solo, avevo cominciato a guardare i film come da tempo mi ero messo a leggere i libri: sforzandomi di osservarne i meccanismi, nel tentativo di rendermi costantemente consapevole di quello che stava succedendo davanti ai miei occhi. Non a livello di trama o di emozione. A livello di processo creativo.
“Ma così ci si rovina il piacere della lettura/visione!”
Sì, in un certo senso.
Ma non in tutti i sensi.
Possiamo effettivamente scordarci il piacere di perderci in un libro, o in un film; è vero semmai il contrario: dovremo imparare a orientarci, a evitare ogni forma di smarrimento. Ed è chiaro che, così facendo, la lettura di un romanzo o la visione di un film saranno più faticose, per via dell’attenzione, della concentrazione, della insistita riflessione che saremo chiamati a esercitare: uno stato di costante all’erta che può perfino snervare, soprattutto quando ci troviamo di fronte a un capolavoro, a un’opera capace di essere creativamente soverchiante.
(Io non amo molto Philip Roth, eppure, anno dopo anno, ho finito per leggere quasi tutti i suoi romanzi, per via di quella sua speciale abilità nella costruzione delle frasi. Ogni libro mi ha portato via settimane per terminarlo: la sua bravura, la sua varietà, la sua ricchezza, sono tali da imporre un passo lento e spesso sfiancante.)
Insomma, perso il piacere di perdersi, scopriremo tuttavia un piacere diverso: quello del detective che lavora per decifrare la scena del crimine, scoprendo colpevoli, moventi e armi del delitto.
Quanto alla vittima, quella è sempre la stessa: il lettore che si lascia – giustamente – sorprendere.
P.s.= Si diceva dei sogni a occhi aperti in attesa dell’uscita di un romanzo, una volta in effetti mi è capitato di incontrare una lettrice impegnata nella lettura di un mio libro. Sempre lui: Studio illegale. Ero sul treno Roma-Milano, andai in bagno e passai di fianco a una ragazza nascosta dietro a quella copertina per me inconfondibile. Le chiesi: “Ti piace?”, lei, presa in contropiede, esitò, ripetei la domanda: “Il libro, dico, è bello?”, “Sì” disse lei, ma non sembrava convintissima, aggiunsi: “Ma niente di speciale”, “No”, confermò, “niente di speciale”, “L’ho scritto io”. Imbarazzi, sorrisi, ciao ciao. Scese a Bologna, ma prima passò a trovarmi al mio posto: “L’ho finito, mi è piaciuto!”, quante bugie, pure i lettori.
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