La settimana scorsa, nel presentare questa newsletter, ho scritto: “Tipo un corso di scrittura creativa? Per quanto la formula non suoni benissimo, sì, tipo quello”.
Mi rendo conto di aver scritto una sciocchezza: non penso affatto che la formula corso di scrittura creativa non suoni benissimo. Se devo dirla tutta, mi pare una gran bella formula, capace di mettere insieme tre splendidi concetti: l’insegnamento (e l’apprendimento), la scrittura, la creatività.
E allora perché l’ho scritto?
Per un impulso vile: cercavo di mettermi al riparo dal pregiudizio negativo che resiste nei confronti dei corsi di scrittura creativa: I CORSI DI SCRITTURA CREATIVA SONO INUTILI, ANZI DANNOSI! LE SCUOLE DI SCRITTURA PRODUCONO TESTI TUTTI UGUALI! L’ARTE NON SI LASCIA IMBRIGLIARE IN UN PUGNO DI PRECETTI! ECCETERA! ECCETERA!
La mia esperienza di scrittore (oltre che di insegnante di scrittura creativa, ma più quella di scrittore) mi ha insegnato due cose.
• La 1°: la scrittura creativa segue – uniformandosi o violandoli – una serie di principi, e tali principi possono essere appresi (e dunque insegnati).
MA CHE C’ENTRA, insiste lo scettico, TU PARLI DI TECNICA! IO PARLO DI TALENTO! CREATIVITÀ! ESTRO! QUELLI NON LI PUOI INSEGNARE! QUELLI CE LI HAI O NON CE LI HAI!
• La 2°: io credo che si possano imparare pure il talento, la creatività e l’estro.
Non sono stato un ragazzino particolarmente creativo.
Mi piaceva leggere, ascoltare la musica, guardare i film, persino andare nei musei, ma realizzare qualcosa, in modo attivo, mi sembrava ben al di sopra delle mie possibilità, soprattutto se si trattava di romanzi.
Guardavo agli scrittori con soggezione: ma come facevano a riempire 300 pagine di parole, di cose inventate, sensate, significative, quando io non sapevo nemmeno cosa dire a mio zio a Natale?
Ricordo il primo romanzo “da grandi” che lessi: Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie. Avevo 11 anni, me lo rifilò mio fratello maggiore, gli era stato assegnato a scuola, mi disse: «Leggilo tu, poi dimmi di cosa parla.»
Ubbidii, e restai folgorato.
Non tanto per il giallo in sé, che pure mi affascinò in modo speciale (apro una parentesi: alla fine del libro si incontra una sorta di postilla che contiene la confessione dell’assassino, io la scambiai per una postfazione e la saltai bellamente, chiudendo il libro soddisfatto, esaltato dall’idea di un giallo pieno di morti uccisi da una qualche entità metafisica mai rivelata, una lezione di giustizia che fece impazzire il mio cervello di undicenne; anni dopo lo rilessi, e scoprii che la postilla conteneva la soluzione del giallo, c’era un assassino ben preciso, c’era una dinamica, c’era un movente, e pensai: ma che libro eccezionale, capace di regalarmi una nuova meraviglia, che superava pure la prima).
Dicevo, restai folgorato non tanto per il giallo, ma per quello che aveva fatto la scrittrice.
Per descrivere la sensazione rubo le parole di uno dei miei autori preferiti, Richard Powers, che – il caso – ha fatto leggere lo stesso libro a un personaggio di un suo racconto che ha incrociato il romanzo più o meno alla stessa mia età di allora e con lo stesso mio stupore.
Il mistero al centro della trama era niente in confronto al mistero dello strumento. Perché queste persone si comportavano in modo tanto inspiegabile? Come siamo passati da mercoledì a venerdì in cinque parole? Chi stava mettendo insieme queste scene per me? Avrei dovuto fidarmi di lei? Come si conduce una cosa del genere?
Domande simili a quelle che mi sono fatto io. E non pensavo che avrei mai trovato una risposta. Mi sarei accontentato di assistere al mistero, serenamente rassegnato a una vita da ammiratore: quella cosa lì - raccontare delle storie - era troppo grande per me.
Ne ebbi conferma quando mi trovai ad affrontare l’unico compito di scrittura creativa della mia carriera scolastica. La professoressa di italiano del liceo ci chiese di scrivere un racconto. Così, senza gabbie né indicazioni.
Ai tempi non ci feci caso ma per quasi tutti noi alunni si trattava di scrivere il primo racconto della nostra vita. E per quasi tutti sarebbe anche stato l’ultimo.
Io scrissi la storia di un uomo che voleva suicidarsi ma alla fine non lo faceva grazie a… Roberto Gervaso.
Non so se qualcuno si ricorda di Roberto Gervaso. Giornalista, pubblicò una valanga di saggi e biografie. In quei giorni andavo in giro con un suo libro di aforismi, della collana Millelire. Ero giovane e impressionabile, mi aveva colpito l’arguzia di certe frasi. Così, di fronte al bianco del foglio, e alla banalità del soggetto che avevo scelto, pensai che le massime di Gervaso sarebbero state utili per riempire le righe infinite che avevo davanti: sarebbero state le riflessioni che avrebbero trattenuto il protagonista di fronte al terribile gesto che aveva scelto di compiere.
Tirai fuori il libro dallo zaino e cominciai il mio onesto lavoro di copista: compilai 4 pagine di fogli a protocollo di cose tipo “Complice il presente, il passato ci guida verso il futuro”, oppure “Ho più rughe sul cuore che sulla fronte”, o la spropositata “Donne: diavoli senza i quali la vita sarebbe un inferno”.
Che pena per me.
Ma la vera sconfitta, come spesso succede, arrivò nel confronto. Il rivale si presentò nelle sembianze di Bubu, soprannome di Francesco B, compagno di banco, ancora oggi amico caro, il primo della classe, mente fredda, analitica, aria tutt’altro che artistica.
Chiesi a Bubu di farmi leggere il suo racconto. “Certo, volentieri, ecco qua.”
Parlava di un vecchio capostazione che per tutta la vita ha svolto con abnegazione e precisione un solo compito: smistare i treni lungo un binario che si biforca. Un treno a destra, un altro a sinistra, a seconda delle istruzioni ricevute. Un mestiere semplice ma di importanza fondamentale, a cui l’uomo ha dedicato un’esistenza intera. Un giorno, il capostazione resta vittima di una tragica distrazione e spedisce a destra un treno destinato a sinistra. Preoccupazione, angoscia. E ora? Ora il foglio a protocollo corre dietro al disperato tentativo del capostazione di rimediare all’errore, un inseguimento affannoso del treno prima che sia troppo tardi. E l’uomo sembra quasi farcela, ha quasi raggiunto il treno, quand’ecco che si blocca all’improvviso, ha visto qualcosa che lo paralizza: i due binari paralleli semplicemente si ricongiungono, e il treno se ne va per la sua strada, unica, sempre quella. Non c’era pericolo, non c’è mai stato, non c’era necessità, non c’è mai stata. Uno schiaffo crudele: tutta la vita del capostazione è stata un inganno, quel compito così importante era l’abbaglio di una fede tradita, il trucco di una burocrazia invisibile e lontana. La scoperta tragica: la vita non ha senso.
Alzai gli occhi, guardai l’amico mio.
Ma come, io saccheggiavo Roberto Gervaso e questo, tutto candido, giocava a fare il piccolo erede di Kafka. Avvilito, la buttai sul ridere, dissi che il mio racconto era il sequel del suo.
Poco tempo dopo scrissi un secondo racconto.
Sempre un compito in classe, sempre di italiano. Stavolta però la consegna era diversa, si trattava di un tema come un altro, qualcosa come: descrivi gli atteggiamenti e i comportamenti tipicamente italiani che trovi deprecabili.
Qualche giorno prima avevo visto Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, film Disney che qualcuno ricorderà. Per chi non dovesse, copio il riassunto da Wikipedia:
Un inventore in difficoltà rimpicciolisce accidentalmente i suoi figli, insieme a quelli dei vicini, fino alle dimensioni di un quarto di pollice. Dopo essere stati accidentalmente gettati via con la spazzatura, devono lavorare insieme e avventurarsi per tornare indietro attraverso un cortile selvaggio pieno di insetti pericolosi e pericoli creati dall'uomo.
Mi chiesi: e se facessi la stessa cosa? Se prendessi quella struttura lì e la piegassi agli scopi miei? Raccontare un ambiente apparentemente banale, conosciuto (un prato in quel caso, l’Italia nel mio), attraverso gli occhi di qualcuno costretto a scoprirlo per la prima volta nella sua vera e temibile realtà.
Mi sembrò una buona idea.
Mi fabbricai il mio Mister Jones, un inglese in Italia per lavoro che, nel corso di una sola joyciana giornata, avrebbe fatto i conti con quegli atteggiamenti e comportamenti sgradevoli che la professoressa ci chiedeva di elencare. Alla fine della giornata l’inglese, esausto, avrebbe anticipato il biglietto di ritorno.
Venne fuori un bel testo. Divertente, brillante.
Prima di consegnarlo però ebbi paura: e se la professoressa avesse trovato l’esperimento fuori luogo? Mi fabbricai uno scudo: buttai giù in fretta e furia una lunga coda in cui mollavo le velleità narrative e tiravo saggiamente le conclusioni. Soprattutto, mi misi a fare la morale al mio personaggio, roba tipo: senti, inglese, vedi di fare poco lo splendido, che noi abbiamo avuto il Rinascimento, Michelangelo, Leonardo, Manzoni, questo e quest’altro, e lanciavo un invito un po’ presidenziale agli italiani tutti, affinché non dimenticassero la gloria passata e ritrovassero il genio perduto.
Voto: 6 ½ .
La professoressa disse che se mi fossi limitato al racconto avrei portato a casa un 8. La lezioncina finale aveva spazzato via il buono che la precedeva.
Poco male: per la prima volta avevo lavorato con la mia immaginazione. E ci ero riuscito grazie a una struttura narrativa che, per la sua semplicità, avevo riconosciuto come tale. Nessun Musa, nessuna idea, nessun lampo: solo una faccenda tecnica.
Poco sopra, quando mi sono inventato (inventato per modo di dire: ce ne sono tanti così) un interlocutore molesto che svilisce la tecnica per esaltare il talento, mi sono sforzato di non soffermarmi troppo sul punto per non diventare inutilmente bellicoso.
Il fatto è che non ho mai capito l’avversione che i critici delle scuole di scrittura - spesso scrittori essi stessi - nutrono nei confronti della tecnica, dipinta come la malattia degenerativa che prende l’arte e la trasforma in artigianato.
(Mi sembra che solo la letteratura conosca di questi furori: mai sentito un pittore sdegnare i modi della composizione cromatica, o un musicista inorridire di fronte alle regole dell’armonia.)
Io credo che la tecnica sia la principale via di accesso alla creatività, lo spiraglio che le permette di farsi libera. Maggiori sono le abilità tecniche, maggiore sarà la capacità di esprimersi, e maggiore dunque la creatività.
Perché la creatività - di questo sono certo - non è una dote rara, non è un dono elargito a pochi, non ha nulla di straordinario. È - così, semplicemente - l’essenza più pura della coscienza umana, e si manifesta quotidianamente in innumerevoli modi (nelle scelte, nei sogni, nei desideri, nei litigi, in ogni istante in cui si dà forma alla propria vita) anche nelle persone che consideriamo “banali”, “noiose”, “insipide”: giudizio che spesso rivolgiamo a noi stessi, cedendo all’eugenetica del talento.
Nel migliore dei casi, questa rovinosa idea di una dote innata e destinata a pochi privilegiati è solo un fraintendimento e un’ingenuità, nel peggiore: una forma di resa, un alibi comodo, frustrante e davvero poco utile.
Dio, quanto odio Shakespeare, afferma pubblicamente Nick, il drammaturgo fallito protagonista del musical Something Rotten! Quel piccolo stronzo pomposo incurante del mio culo che insensibile alla quarta ora di dramma, quel bastardo il cui talento è solo quello di rubare le idee altrui, Dio, quanto odio Shakespeare!
Poi, però, in solitudine, ammette:
Dio, quanto odio Shakespeare
Ma se mi siedo a contemplare davvero Shakespeare
Capisco di odiare il fatto che lui
È tutto quello che sognavo di essere io
Quello che più odio di Shakespeare
È il modo in cui mi fa sentire
A proposito di… me.
Chiunque si sia cimentato in una qualche forma di produzione artistica conosce bene il sentimento di Nick, quel soverchiante misto di invidia e scoramento. Poi però, nel musical, arriva il momento di Shakespeare, e lo sentiamo cantare i suoi (credibili) tormenti:
È dura essere il Bardo
Dura davvero
E lo so, lo so
Che dovrei andare
Riprendere in mano penna e inchiostro
Ma vi prego, non fatemelo fare
Non mi costringete a passarci un’altra volta
Qualcuno può portarmi qualcosa da bere?
Perché è dura
È dura
È dura davvero
E insiste:
Quello che la gente non capisce
È che scrivere è una fatica
Una sfida mentale
Una noia
Una tale monotonia
Starsene chiusi in una stanza da soli
Dio, quando lo odio!
E scrivi una parola ma non è la parola giusta
E provi una nuova parola ma detesti quella nuova parola
E cerchi una buona parola ma non trovi la parola
E dov’è? Qual è? Qual è? Dove’é?
E bla bla bla, bla bla bla, bla bla bla, bla ah ah ah…
Insomma, è vero, c’è chi sembra dotato di una maggiore sensibilità o di un maggiore interesse nei confronti del gesto creativo, ma si tratta unicamente di una questione di attitudine e di volontà.
In questo senso, tornano precise le parole dell’immenso Jacques Brel, il più grande scrittore di canzoni:
L’arte… io non lo so cosa sia l’arte. Raccontiamo ciò che ci manca, quello che non siamo in grado di fare: è un fenomeno di compensazione. E io volevo realizzare questo fenomeno di compensazione. E ho dovuto lavorare molto per questo, ovviamente. Perché di una cosa sono convinto: il talento non esiste. Il talento è avere il desiderio di fare qualcosa. […] Volere realizzare un sogno è talento. E tutto il resto è sudore. È traspirazione, è disciplina. Ne sono sicuro. L’arte, non so cosa sia. Non conosco artisti. Credo che ci siano persone che lavorano su qualcosa e che lavorano con grande energia. Non credo a un incidente della natura. Proprio no.
Il talento non esiste: che verità terribile e consolante.
Ma il nostro critico non si ferma e tira fuori la protesta finale, che assume mille forme ma alla fine si riduce sempre allo stesso concetto: PUOI DIRE QUELLO CHE VUOI MA LE SCUOLE DI SCRITTURA NON TI FARANNO MAI DIVENTARE FLAUBERT!
E io mi immagino questa rimostranza urlata in un salone pieno di gente che all’improvviso ammutolisce, si volta verso il tizio esagitato responsabile della grande epifania e lo guarda in silenzio, un lungo attimo sospeso, poi qualcuno dice: “È arrivato il genio”, e tutti tornano a fare quello che stavano facendo.
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P.p.p.p.s= Qualcuno potrebbe chiedermi che fine ha fatto Bubu? Grazie della domanda: non ha scritto altri racconti, non era la strada sua, non gli interessava. Oggi insegna fisica teorica all’universita di Nagoya, in Giappone.
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L'uomo è nato per soffrire, e ci riesce benissimo. R. Gervaso
In Bocca al lupo
Marco
Ottimo ed efficace come da anni. Sono qui per le lezioni sulla costanza e il coraggio 😜